«C’è negli esseri umani (e nel mondo) un modo di essere che si esprime nella distinzione tra le cose, quindi nella loro divisione, e un altro modo che tratta qualsiasi oggetto di conoscenza come se fosse indiviso: il modo eterogenico o asimmetrico e il modo indivisibile o simmetrico. Il modo indivisibile, la cui logica può essere definita e compresa dalla logica classica a partire dalle violazioni che questa stessa logica subisce, tratta insiemi infiniti e spazi multidimensionali. È l’immensa base da cui emerge la coscienza spazio-temporale, è la realtà dell’essere da cui emerge la realtà del comprendere. La realtà dell’essere senza spazio, senza tempo e senza morte» (Patrizia Valduga, Lezioni d’amore).
Il progetto si propone di investigare uno di questi due “modi di essere” e in particolare l’idea di coscienza che emerge da alcuni scritti del collega fisico Emilio Del Giudice. Tale idea appare in sintonia con il modello di coscienza elaborato del fisico quantistico Amit Goswami, il quale però esplora esplicitamente i legami fra meccanica quantistica e le correnti del misticismo indiano, in particolare il Vedanta (uno dei sei darshana o sistemi teorico-interpretativi che discendono dai Veda e considerati “ortodossi” dall’induismo).
Attraverso la consulenza di Massimo Marraffa, esperto di psicologia cognitiva, si tenterà di definire meglio (ma non troppo) l’oggetto di studio a partire dall’assunto di G. Edelman che la coscienza emerga dal cervello e che coincida con lo “stato cosciente” e quindi con l’intenzionalità.
Lungi dal voler confutare in toto questa visione, scopo della ricerca sarà, invece, quello di allargare lo scenario ad altre idee di coscienza. Non essendo possibile esplorare venti secoli di filosofia mistica fra Occidente e Oriente, fisserò i miei paletti intorno alla concezione della coscienza (e del Sé) così come emerge nei principali testi dello Yoga.
In termini di possibili compenetrazioni, pur non parlando direttamente di coscienza, Del Giudice introduce una prospettiva quantistica che si ricollega (sebbene dichiari di essere ateo) alle concezioni orientali (il Tao, i Ching) e agli archetipi junghiani elaborando l’idea di un vuoto quantistico accessibile «a chiunque si ponga in uno stato meditativo nel senso della tradizione orientale». A parte l’ottimismo universalista, è proprio quel “chiunque” ad essere l’obiettivo dello Yoga che, nelle parole del suo primo codificatore, Patanjali (vissuto nel II sec. a.c.), è «la cessazione dei vortici (vritti) della mente (citta)». Citta in sanscrito però vuol dire anche coscienza, nel senso d’intenzionalità, direzione verso un obiettivo (desiderio, paura, ecc.). Perciò l’ostacolo maggiore al raggiungimento di uno stato superiore di “consapevolezza” è la rimozione/cessazione dell’attività cosciente ordinaria. Ma tutto ciò a partire da un uso del corpo: ovvero le asana, le posizioni dello Yoga il cui scopo non è altro che il raggiungimento di uno stato di quiete preparatorio alla meditazione.
Al contrario, chi parla esplicitamente di coscienza, è poi il fisico indiano Goswami. Come si accennava sopra, con Goswami si entra nel campo esplicito di una ricerca delle convergenze fra visione scientifica e visione mistica in cui «la materia esiste come possibilità all’interno della coscienza» e le tecniche di meditazione basate sul controllo del respiro, e della ritenuta a vuoto si configurano come una sorta d’interfaccia d’accesso al vuoto quantistico ipotizzato dal Del Giudice.
Ecco dunque come il progetto si propone di esplorare queste tematiche operando una minima ricognizione storico-teorica, una storia portatile dell’idea “immateriale” di coscienza fra antica India (Yoga) e fisica quantistica.